Parafrasando il celebre romanzo di Milan Kundera ci avventuriamo nella giungla degli acronimi per fare alcune riflessioni sugli avvenimenti politici degli ultimi giorni (mesi?) in Italia e nell’Unione europea (UE) che ruotano, sostanzialmente, intorno agli strumenti economico-finanziari UE da adottare per sostenere le politiche necessarie al contenimento dei gravi danni economici (e sociali) prodotti dalla epidemia coronavirus. Ancora una volta in Europa si materializza una crisi che ha origini all’esterno e che viceversa ha prodotto, e produrrà, effetti devastanti all’interno della già bistrattata Unione. Non solo sul piano economico e sociale ma anche (e forse soprattutto) sulla (già fragile) solidarietà tra i governi degli Stati membri che metterà a dura prova la tenuta dell’intero processo di integrazione europea. Il tutto in un panorama europeo sempre più incerto – che dà titolo alle istanze sovraniste e nazionaliste – nel quale nè la timida Commissione europea nè l’incompiuto Parlamento europeo possono bilanciare la deriva intergovernativa di Consiglio europeo e Consiglio UE. L’imperativo per l’Italia (non facile) è di trovare il giusto compromesso tra una soluzione il più possibile “indolore” – per l’oggi e per il futuro – e la sostenibilità del debito pubblico già a livelli intollerabili (tra il 153% e, nella ipotesi peggiore a fine 2020, il 164% del Pil). Nei consessi internazionali ed europei in particolare, tessere una trama diplomatica tra le differenti e divergenti istanze è l’unico comportamento possibile che potrebbe portare ad una soluzione positiva (per l’Italia) accolta da tutti gli altri Stati/governi. E benchè talune decisioni sono prese per “consenso” (una sorta di “unanimità politicamente accettabile” nel rispetto delle differenti sovranità) sappiamo bene che l’unanimità (consenso) del voto non sempre rispecchia l’unanimità delle posizioni dei singoli soggetti laddove i gruppi di Stati/governi che si vengono a costituire sono di regola orientati dallo Stato/governo più rilevante sul piano politico, economico e demografico. Così nel gruppo degli Stati dell’est di Visegrad, degli Stati “frugali” del nord Europa e degli Stati “spendaccioni” del sud euro-mediterraneo. Nell’ultimo meeting del 2 Aprile scorso il General Board dello European Systemic Risk Board (ESRB) – cioè a dire il Consiglio generale dell’organismo europeo che ha il compito di vigilare sui “rischi sistemici” del sistema finanziario dell’Unione (Regolamento UE n. 1092/2010) – ha posto l’attenzione sulle conseguenze della pandemia coronavirus sul sistema economico-finanziario dell’Unione e (implicitamente) sollecitato gli Stati membri a mantenere un comportamento equo e non aumentare il debito pubblico futuro con scelte non sostenibili. L’economista Riccardo Realfonzo, con il quale concordo, stamattina ne Il Sole 24 Ore (17 aprile 2020) affronta la questione indicando vari scenari. In assenza di una soluzione comune europea per il finanziamento dell’emergenza lo scenario è devastante: 1) contrazione ulteriore del Pil; 2) aumento della spesa pubblica; 3) consistente calo delle entrate fiscali il che ci porterebbe a non sostenibilità del debito. Questo quadro potrebbe essere possibile a seguito dell’utilizzo del Meccanismo europeo di stabilità (MES) che potrebbe produrre nel lungo periodo (a causa di eventi esterni e decisioni oggi non ipotizzabili) altro debito, rendendolo, pertanto, insostenibile. Ergo, il ricorso a politiche di austerità delle quali sappiamo che cosa hanno prodotto in passato, aumento dell’imposizione fiscale, addirittura possibili forme di espropriazione della ricchezza. Un quadro devastante. La strada meno rischiosa, sostiene Realfonzo, è quella del finanziamento delle banche centrali (l’acquisto di titoli di debito comune e/o l’emissione di questi titoli verso il mercato) e, in particolare, della Banca Centrale europea (BCE); “la monetizzazione dei nuovi deficit permetterebbe di attivare le risorse necessarie a costo zero e senza appesantire il debito pubblico di Paesi” come l’Italia. Non dimenticando altresì gli strumenti (prestiti) della Banca europea per gli investimenti (BEI). Nella peggiore delle ipotesi, in questo quadro che speriamo non possa mai avverarsi, ritornerebbero alla carica i fautori e sostenitori di Italexit. Ma a quale costo? Come detto in precedenza gli spazi di manovra sono ristretti; c’è bisogno della più abile “ars diplomatica” per uscirne non dico vincitori ma quanto meno non perdenti.
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