Il riequilibrio contrattuale nelle locazioni ad uso commerciale a seguito delle restrizioni per il Covid-19
Nassim Nicholas Taleb ha negato che il COVID-19 sia il Cigno Nero, l’evento imprevedibile che mette in crisi l’economia globale e che gli analisti economici non sono in grado di fronteggiare. Eppure tutti vedono aleggiare la sinistra sagoma di questo uccello raro. La morsa della crisi economica indotta dalla pandemia inevitabilmente mette alla prova i rimedi tradizionali per l’inadempimento patrimoniale. Nell’immediatezza è la locazione commerciale ad essere finita nel mirino dei giuristi, spinti dalla preoccupazione per le sorti delle imprese commerciali che, costrette alla chiusura forzata dalle misure emergenziali contro la pandemia, sono tenute comunque per contratto al pagamento del canone di locazione. Le difficoltà del conduttore, tuttavia, sono solo della punta dell’iceberg di squilibri molto più ramificati del sinallagma contrattuale che scuotono quasi tutti i contratti della filiera produttiva e della distribuzione: componenti di prodotti che non arrivano alle imprese, impossibilità o maggiori costi di distribuzione dei prodotti, annullamenti di massa degli ordini; azzeramento della domanda turistica e di trasporti. “Nessuno si salva da solo” non è solo una preghiera del Pontefice, ripresa presumibilmente dall’omonimo libro di Margaret Mazzantini, orientata alla coesione e alla solidarietà sociale, ma sembra essere una massima sottesa ai diversi tentativi per riequilibrare i rapporti giuridico- economici scossi dalla crisi. Interventi per alcune tipologie di contratti1 sono stati da subito adottati dal legislatore per esonerare da responsabilità contrattuale gli imprenditori impossibilitati a garantire gli impegni già assunti o per liberare dal vincolo contrattuale gli acquirenti che, per effetto delle misure restrittive, risultano impossibilitati a fruire dei servizi acquistati. Torna di forte attualità, pertanto, la tematica del “diritto delle sopravvenienze”2.
∗ Magistrato. Mail: p.serrao@csm.it. Il contributo è stato accettato per la pubblicazione nell’ambito della call Diritto, diritti ed emergenza ai tempi del Coronavirus, su BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto.
1 In particolare, il D.L. n. 9 del 2020, il D.L. n. 11 del 2020 e l’art. 83 del D.L. n. 18 del 2020. Sulla legislazione emergenziale di questo periodo e il suo inquadramento costituzionale e sui problemi interpretativi sollevati già dal decreto legge n. 11 del 2020, v. G. Scarselli, Interpretazione e commento del decreto legge 8 marzo 2020 n. 11 di differimento delle udienze e sospensione dei termini processuali civili per contrastare l’emergenza da COVID 19, in www.judicium.it e anche anche P. Serrao d’Aquino, La riorganizzazione della giustizia civile al tempo del COVID. Commento alle misure introdotte dal decreto legge n. 18 del 2020, in www.federalismi.it.
2 F. Macario, Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di “Coronavirus”, in www.giustiziacivile.com; V. M Mattioni, Sul ruolo dell’equità come fonte di diritto nei contratti, in Riv. Dir. Civ., 2014, 3, 567 e ss.; P. Gallo, Revisione del contratto ed equilibrio sinallagmatico, in Digesto civile, 2019.
2. Il factum principis
Si è tentato di alleggerire la posizione del conduttore affermando che l’ordine o il provvedimento dell’autorità amministrativa di chiusura dell’attività costituirebbe factum principis, evento imprevedibile e costituente forza maggiore3, che rende impossibile l’esecuzione della sua prestazione (art. 1256 c.c.).
Si tratta, però, solo una suggestione non utile allo scopo. L’errore non consiste nel qualificare tale evento come factum principis, ma nel ritenere che sia il pagamento del canone a divenire impossibile. Le imprese sono esonerate da responsabilità per l’inadempimento delle prestazioni la cui esecuzione è direttamente preclusa dalle misure restrittive, come quelle ricollegate alla fornitura di servizi presso l’esercizio chiuso oppure alla consegna di beni che non è possibile distribuire o di prodotti che non possono essere finiti, non essendo arrivati alcuni loro componenti. Tale impossibilità non si estende, invece, al pagamento del canone: secondo l’antico adagio genus nunquam perit, tale condizione può verificarsi solo quando la prestazione abbia per oggetto un fatto o una cosa determinata o di genere limitato, e non già una somma di denaro4.
Neppure può sostenersi che la prestazione divenga soggettivamente impossibile: è evidente, infatti, che non si può stabilire alcun automatismo tra la chiusura dell’attività e l’adempimento della prestazione pecuniaria per assenza di liquidità, condizione che può essere determinata dalle ragioni più varie.
3 V. Cass., Sez. 3, n. 14915 dell’08 giugno 2018.
4 Cass. 16-3-1987 n. 2691; Cass. 17-6-1980, n. 3844; Cass. 15-7-1968, n. 2555; nello stesso senso Cass. 30-4-2012, n. 6594; Cass. 15 novembre 2013, n. 25777.
3. L’impossibilità di utilizzare la prestazione del locatore
In realtà il conduttore è nella impossibilità, non come debitore di eseguire la propria prestazione, ma come creditore di utilizzare con profitto la prestazione tipica del locatore di messa a disposizione dell’immobile.
L’impresa conduttrice verserebbe in una condizione analoga a quella dell’acquirente del pacchetto turistico che, secondo la giurisprudenza di legittimità5, non potendo fruire utilmente della prestazione alberghiera per circostanze sopravvenute che integrano gravi ragioni personali (es. una malattia o un grave lutto familiare), è legittimato a chiedere la risoluzione del contratto6.
La cd. impossibilità di utilizzazione della prestazione si verifica, infatti, laddove la prestazione dedotta in contratto sia in astratto ancora eseguibile, ma sia venuta meno, in fatto, la possibilità di perseguire lo scopo essenziale a cui essa è indirizzata, venendo in tal modo meno la sua causa concreta.
Anche sotto tale aspetto, tuttavia, gli interpreti trascurano una differenza significativa: nel caso del consumatore dell’offerta turistica, il contratto si risolve e l’albergatore non esegue più la sua ma sopporta il rischio economico di non poter occupare la stanza. Il locatore, invece, continua ad eseguire regolarmente la propria prestazione continuando a mettere a disposizione il bene.
L’esonero dal canone del conduttore, in definitiva, renderebbe gratuita o priva di una controprestazione quella regolarmente eseguita dal locatore.
5Cass., Sez. I, 10 luglio 2018, n. 18047; già Cass. n. 26958/2007.
6Studio Chiomenti, newsletter.
Si è sostenuto, ancora, che l’impossibilità potrebbe essere temporanea o parziale, come per tutti i contratti a esecuzione continuata e periodica. Richiamando sempre l’art. 1256 c.c., il conduttore che non voglia, o non possa, recedere dal contratto, avrebbe diritto di ottenere una “corrispondente” sospensione o riduzione del canone di locazione, parametrata al periodo di mancato utilizzo dell’immobile7. La tesi sarebbe avvalorata dall’art. 91 del d.l. n. 18 del 2020 il quale introduce all’articolo 3 del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con la l. 5 marzo 2020, n. 13, il comma 6-bis: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”. La norma, senza alcun improprio automatismo, prevede che la misura di contenimento è “sempre valutata” per l’accertamento della responsabilità del debitore. La chiusura dei locali può giustificare l’inadempimento temporaneo, escludendo la possibilità per il locatore di chiedere la risoluzione per inadempimento, ma non consente affatto, ripresa l’attività, di non pagare al locatore il canone anche per i mesi nei quali l’attività ha subito l’interruzione8. In altri termini, il canone resta dovuto, ma il mancato pagamento delle mensilità maturate durante le misure restrittive può non essere considerato grave. La legislazione emergenziale, con interventi settoriali, è intervenuta anche per regolare la sorte di alcuni contratti che non possono essere eseguiti o per i quali esiste una elevata probabilità di non poter fruire delle prestazioni, portando a confermare che non vi è spazio per l’esonero dal pagamento. Per i contratti di trasporto (aereo, ferroviario, marittimo), per le vendite di pacchetti turistici e di viaggi di istruzione, l’art. 28 del D.L. n. 9/2020 prevede che le procedure di rimborso possano concludersi con la restituzione del corrispettivo versato, con l’emissione di un voucher; nel caso di pacchetti turistici, anche con l’offerta al viaggiatore un pacchetto sostitutivo di qualità equivalente o superiore. Analoga disposizione è prevista dall’art. 88 del D.L. n. 18/2020 oltre a disporre per i contratti di acquisto di titoli di accesso per “spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, e di biglietti di ingresso ai musei e agli altri luoghi della cultura” che, “ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1463 del codice civile, ricorre la sopravvenuta impossibilità della prestazione”. Ancora, l’articolo 65 del decreto CuraItalia ha riconosciuto, per l’anno 2020, ad alcuni dei soggetti esercenti attività di impresa “un credito d’imposta nella misura del 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1” (i.e. “negozi” e “botteghe”). Anche tale norma consente agevolmente di comprendere che se il legislatore prevede il credito di imposta, ciò presuppone che il canone per il periodo di chiusura resti dovuto9. Si può escludere, pertanto, che l’obbligo di pagamento del canone per il locale chiuso per l’emergenza COVID possa essere escluso in base al citato comma 6-bis.
7 A. De Mauro, Pandemia e contratto: spunti di riflessione in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione, in www.giustiziacivile.com.
8 G. Grisi, L’inadempimento di necessità, in www.iuscivile.it, afferma che venuto meno l’impedimento, il debitore che tardivamente dia corso all’adempimento non incorre in responsabilità da ritardo, dovendosi ritenere la causa che ha dato luogo all’impossibilità non a lui imputabile. Chiarisce che si tratta una sospensione dell’obbligo della prestazione C.M. Bianca, Diritto civile. 2. La famiglia. Le successioni, Milano, 2001, pag. 537 e ss.
9 Studio Chiomenti, cit.
Un riferimento più pertinente è quello alla eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione: il pagamento di un determinato canone annuale, suddiviso in rate mensili, può divenire eccessivamente oneroso rispetto al valore locativo dell’immobile oppure rispetto al margine di profitto del locatore se, per un determinato periodo, il locale è chiuso. L’art. 1467 c.c., tuttavia, prevede per i contratti ad esecuzione continuata solo la possibilità di richiedere la risoluzione della prestazione, che l’altra parte può evitare offrendo la riduzione del prezzo. Ci si avvicina, con tale istituto, ad un bilanciamento delle posizioni economiche che può esser opportuno nelle locazioni commerciali. La norma, tuttavia, non consente alcuna sospensione unilaterale del pagamento o richiesta di rettifica delle condizioni del contratto10, perché si basa su un meccanismo opposto: il soggetto la cui prestazione è divenuta troppo onerosa (in questo caso il conduttore) può chiedere la risoluzione del contratto e la controparte, per contro, può evitarla offrendo la riduzione del canone11.Nello specifico del contratto di locazione, la chiusura da COVID può integrare anche i gravi motivi ex art. 27, comma 8, l. n. 392 del 1978 che, pur non coincidenti con gli “eventi straordinari e imprevedibili” di cui all’art. 1467 c.c., giustificano ugualmente il recesso del contratto12.
10 La parte che subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni del negozio e non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite (Cass. 26 gennaio 2018, n. 2047; Cass. 25 marzo 2009, n. 7225; Cass. 5 gennaio 2000, n. 46), né l’eccessiva onerosità può fondare una mera eccezione per contrastare l’altrui richiesta di adempimento (Cass. n. 20744/2004; Cass. n. 1090/1995).
11 Si ritiene che il debitore non sia esonerato dall’adempimento, né legittimato a sospendere l’esecuzione della prestazione. (C. M. Bianca, Diritto, V, 387).
12 N. Crispino – F. Troncone, Emergenza coronavirus: quali possibili effetti sulla locazione a uso commerciale, in www.ilcaso.it.
Ad una analisi attenta i rimedi classici del contratto non consentono, pertanto, di rimediare ai danni economici derivanti dalla chiusura per COVID. Si è opportunamente richiamata, per trovare una soluzione, la tematica generale del riequilibrio del contratto, ricordando, tuttavia, che l’esistenza di potere-dovere del giudice di revisione del contratto risulta costantemente negato in giurisprudenza13. È nota la assenza, all’interno del nostro sistema, di norme finalizzate alla “revisione” del rapporto14, salva la disciplina di alcuni contratti tipici (es. l’art. 1818 nel contratto di mutuo e l’art. 1664 nel contratto di appalto) la quale, peraltro, non prevede un obbligo di rinegoziare posto in capo alle parti, ma una rideterminazione ex lege del contenuto del rapporto contrattuale15. Lo stimolo quanto alla tematica della revisione del contratto16 è arrivato inizialmente da testi non legislativi come i PICC (Principles of International Commercial Contracts), che contemplano la revisione del contratto nei casi di squilibrio originario o sopravvenuto, nonché dai PECL (Principles of European Contract Law), sostanzialmente confermati nel Draft Common Frame of Reference, che prevedono la revisione in caso di errore e di lesione. Diversi ordinamenti europei hanno introdotto istituti analoghi. La Germania, con la riforma delle obbligazioni del 2002, recependo una elaborazione della giurisprudenza sulla applicazione della buona fede in senso oggettivo (§ 242 BGB), ha specificamente regolato la revisione del contratto nel § 313 del BGB. La Francia, in occasione della riforma del codice civile del 2016, ha espressamente contemplato, modificando l’art. 1195, la sopravvenienza nonché la revisione del contratto. In Spagna, invece, l’istituto della revisione del contratto è stato introdotto da parte della giurisprudenza. L’anticipazione delle riforme da parte della giurisprudenza di tali Stati dimostrerebbe, secondo la dottrina, che non è necessaria una modifica legislativa per addivenire in Italia allo stesso risultato17. L’ultimo ventennio è stato anche contrassegnato da numerose norme settoriali che consentono, con presupposti, modalità e scopi diversi, il riequilibrio delle posizioni contrattuali: la legge “antitrust” del 10-10-1990, n. 287; il significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi, al quale fa riferimento ora l’art. 33, 1° co., cod. consumo; l’abuso di dipendenza economica nel previsto dall’art. 9 legge 18-6-1998, n. 192; la grave iniquità in danno del creditore degli accordi sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento, di cui all’art. 7, D.Lgs. 9-10- 2002, n. 231, in tema di transazioni commerciali.18. Anche l’espansione di tali rimedi, tuttavia, non ha portato la giurisprudenza a rinvenire principi generalizzabili che fondassero un potere del giudice di riequilibrio del contratto.
14 M. Mattioni, Sul ruolo dell’equità come fonte di diritto nei contratti, in Riv. Dir. Civ., 2014, 3, 567 e ss.
15 M. Mattioni, Sul ruolo dell’equità come fonte di diritto nei contratti, in Riv. Dir. Civ., 2014, 3, 567 e ss.
16 P. Gallo, Revisione del contratto ed equilibrio sinallagmatico, op. cit.
17 F. Macario, Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di “Coronavirus”, cit. 18 F. Volpe, Contratto giusto, in Digesto civile, Torino, 2007.
7. La buona fede e il vincolo solidaristico
Più spazio ha avuto, invece, la buona fede19, quale clausola generale destinata a trovare applicazione in tutte le fasi della vicenda contrattuale (artt. 1175, 1366, 1375 c.c.)20.
Essa dimostra di avere la duttilità necessaria per essere utilizzata per indirizzare il comportamento delle parti in caso di sopravvenienze eccezionali. È noto, tuttavia, che secondo l’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza21 essa costituisce un criterio regolatore, integrativo o interpretativo di obblighi previsti da disposizioni di legge, ma non è in sé fonte di obblighi negoziali nuovi e diversi rispetto a quelli già introdotti dal legislatore22.
Imperniato sulla buona fede in executivis è il lodevole tentativo di attribuire al giudice un potere processuale di riequilibrio del contratto: per stare a pronunce più recenti, esso “trarrebbe linfa da un’applicazione del principio di buona fede di cui all’art. 1375 cod. civ. che regola l’esecuzione dei contratti nell’ottica di un ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti contraenti e…non si presenterebbe distonica, in relazione all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà”, trattandosi, si precisa, di limiti compatibili con il ruolo assegnato al giudice dalla C. Cost. (sent. n. 248 del 2013, ord. 77 del 2014.)23. In particolare, la sentenza n. 248 del 2013 fa riferimento al “precetto dell’articolo 2 Cost., (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, «funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato»”24.
Si tratta di una questione particolarmente delicata in quanto investe il rapporto tra funzione giudiziaria e discrezionalità politica che costituisce, a mio avviso, il principale ostacolo individuato dalla dottrina alla introduzione o ricognizione di un potere generale del giudice di riequilibrio del contratto25.
Alcune sentenze della Corte di Cassazione hanno dato ampio spazio argomentativo al principio solidaristico in materia contrattuale. Si è affermato, ad esempio che il normale controllo che “l’ordinamento si è riservato sugli atti di autonomia privata. (…), non può ora non implicare anche un bilanciamento di “valori”, (…) accanto al valore costituzionale della “iniziativa economica privata” (sub art. 41) (…) di un concorrente “dovere di solidarietà” nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.). Dal quale la Corte costituzionale ha già, in particolare, desunto “l’esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie” (cfr. sent. n.19/1994). E che, entrando (detto dovere di solidarietà) in sinergia con il canone generale di buona fede oggettiva e correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 c.c.), all’un tempo gli attribuisce una vis normativa e lo arricchisce di contenuti positivi, inglobanti obblighi, anche strumentali, di protezione della persona e delle cose della controparte” (Cass. 24 settembre 1999, n. 10511).
In realtà la giurisprudenza di legittimità è nella stragrande maggioranza delle decisioni estremamente cauta nel declinare tali principi, relegati solitamente agli obiter dicta. Si pensi, ad esempio a quanto affermato per negare l’illiceità della cd. usura sopravvenuta (Cass. civ. SU del 19 ottobre 2017, n. 24675). Pur ribadendo che il principio di correttezza e buona fede in senso oggettivo impone un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost.26, ha cura di precisare, però, che “La violazione del canone di buona fede non è riscontrabile nell’esercizio in sé considerato dei diritti scaturenti dal contratto, bensì nelle particolari modalità di tale esercizio in concreto, che siano appunto scorrette in relazione alle circostanze del caso”.
19 Sulla buona fede v. F. Cattaneo, Buona fede oggettiva e abuso del diritto, in Riv. trim., 1971, p.
613 e ss.; G. Alpa, Pretese del creditore e normativa di correttezza, in Riv. dir. comm., 1971, II, p. 277; P. Rescigno, Per una rilettura del codice civile, in Giur. it., 1968, p. 224 e ss.; per un orientamento che valorizza la supremazia dei principi costituzionali, P. Perlingieri, Produzione scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare, ora in Scuole, tendenze e metodi. Problemi del diritto civile, Napoli, 1988, p. 24 e ss. V. anche F. Benatti, La clausola generale di buona fede, in Banca borsa tit. cred., 2009, 03, 24).
20 Tra le altre, SU del 19 dicembre 2007 n. 26724 e n. 26725): “(…) è sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede – immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., e sottostante a quasi tutti i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale”.
21 “Le clausole generali … impartiscono al giudice una misura, una direttiva per la ricerca della norma di decisione” (L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, cit., p. 10, 179). V. anche S. Rodotà, Appunti sul principio di buona fede, FP, 1964, I, 1283.
22 V. Cass., Sez. I, n. 4239 del 03/03/2015.
23 N. Crispino – F. Troncone, Emergenza coronavirus: quali possibili effetti sulla locazione a uso commerciale, cit.
24 Non è mancato in dottrina chi ritiene non pertinente o non opportuno il richiamo a norme costituzionali (A. Ravazzoni, La formazione del contratto, II, Le regole di comportamento, Milano, 1974, p. 116; C. Castronovo, Problema e sistema del danno da prodotti, Milano, 1979, p. 125 ss.; C.
Scognamiglio, Interpretazione del contratto ed interessi dei contraenti, Padova, 1992, p. 370 ss.).
25 Preoccupazioni espresse P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in G. it., 1999, c. 231, il quale ha evidenziato il rischio che i giudici si sentano legittimati a sindacare in via pregiudiziale la “equità” di qualsiasi pattuizione, auspicando una rapida e rigida tipizzazione del concetto di squilibrio,
alla quale dovranno provvedere dottrina e giurisprudenza.
26 V. anche Cass. Sez. 3^ 30/07/2004, n. 14605; Cass. Sez. 1^ 06/08/2008, n. 21250; Cass. Sez. U. 25/11/2008, n. 28056; Cass. Sez. 1^ 22/01/2009, n. 1618; Cass. Sez. 3^ 10/11/2010, n. 22819.
8. Conclusioni
Le norme introdotte dal Decreto CuraItalia consentono al conduttore di paralizzare la domanda del locatore di risoluzione o di risarcimento per mancato pagamento del canone durante il periodo di chiusura. È probabile che questo scudo, non automatico, possa essere esteso, in casi particolari, anche per alcune rate immediatamente successive, in presenza di giustificazioni obiettive. Il canone, tuttavia, resta dovuto e non vi è possibilità di autosospensione da parte del conduttore.
Sicuramente opportuna sarebbe l’introduzione di una o più norme specifiche che regolino la distribuzione del danno economico derivante dalla crisi, distribuendolo tra proprietario, conduttore e Stato. Si potrebbe inserire una norma all’interno dell’art. 1467 c.c. la quale disponga che, in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta per eventi straordinari e imprevedibili, non rientranti nell’alea normale del contratto, entrambe le parti possano chiedere la riconduzione del rapporto a condizioni di nuovo equilibrio, senza dover agire necessariamente per la risoluzione del contratto, facendo salva, tuttavia, la possibilità di risoluzione, o di recesso della controparte che non intende aderire al nuovo assetto del rapporto, non potendo quest’ultima essere obbligata a sottostare ad una diversa regolamentazione economica del rapporto. Un alleggerimento del carico fiscale costituirebbe un opportuno incentivo alla rinegoziazione, anche temporanea.
A legislazione invariata, i giudici potranno attivare sia nei giudizi di risoluzione sia in quelli di pagamento anche i loro poteri ufficiosi, con lo strumento della proposta conciliativa ex art. 185- bis c.p.c., invitando a suddividere equamente il danno economico connesso alla chiusura dell’attività.
Non manca già ora alla giurisprudenza, operando una sterzata rispetto agli orientamenti attuali, la possibilità di trovare nella buona fede e nei vincoli di solidarietà sociale il fondamento per una inesigibilità, almeno parziale, della richiesta di pagamento del canone, tenuto conto anche delle specifiche condizioni soggettive delle parti. Difficile, però, una volta aperto il Vaso di Pandora, relegare, senza perdere di coerenza, tale uso della discrezionalità del giudicante alla sola fase di emergenza, rinunciando ad applicare i medesimi principi in analoghe condizioni delle parti una volta ritornati alla “normalità”. È probabile, in definitiva, che neppure l’ombra del Cigno Nero del COVID porterà a riconoscere in capo al giudice italiano, a legislazione invariata, la titolarità di un potere generale di riequilibrio del rapporto negoziale.